Quando mi apprestai a guardare Frank, film del 2014 diretto da Lenny Abrahamson, non sapevo cosa aspettarmi. La locandina era abbastanza eloquente, con il testone di cartapesta inespressivo del protagonista ad occupare la scena, un misto di comicità naїve ed esistenzialismo (credevo) gratuito. L’idea del testone prende ispirazione dal personaggio ideato nel 1984 dal comico e musicista inglese Christopher Sievey: il suo alter ego era costituito, appunto, da una gigante testa di cartapesta , Frank Sidebottom. Nella seconda metà degli anni 80 diventò un idolo in Gran Bretagna. Il suo sogno di diventare un cantante pop strideva con la sua voce e la sua autostima, più che eccessiva sembrava ingenua. La vicenda del film è narrata da Jon Ronson (Domhnall Gleeson) , tastierista per caso del gruppo di Frank, impronunciabile: i Soronprfbs . Ne entra a far parte durante un live finito male, col tentativo di suicidio del primo tastierista, che già all’inizio rivela il trend della band, formata da elementi psicolabili ma incredibilmente creativi. L’enigmatico ma carismatico leader, Frank, è interpretato da Michael Fassbender. Durante il film scopriremo le varie identità e il passato dei suoi componenti: uno dei personaggi di spicco è Clara (interpretata da Maggie Gillenhaal), nemesi del nuovo tastierista fin dall’inizio, sacerdotessa del disagio innamorata del testone, con un passato da clinica psichiatrica, come del resto gli altri componenti. Ma se all’inizio ho quasi storto il naso su alcune scelte anche prettamente grafiche (come la comparsa dei commenti su youtube del protagonista man mano che si addentra nell’avventura introspettiva della band), in seguito ho percepito le motivazioni dietro queste scelte, e il senso della storia ‘visual’ accanto a quella interiore. Il contrasto di unità di misura tra un mondo social ma virtuale, e quello asociale e romantico della band, la vera identità di Frank dietro il suo testone enorme che si impone sulla scena con le sue insicurezze e goffaggini, le dinamiche all’interno del gruppo che cerca l’ispirazione per un nuovo album nella sterminata campagna, praticamente rapendo il nuovo tastierista, voce narrante e unico punto di vista quasi oggettivo tra l’arte disinibita e intimista e il mondo spietato e superficiale della realtà . Prima di essere ingaggiato era infatti un impiegato, ed è l’unico, appunto, ad aggiornare il profilo youtube del gruppo e a collezionare ‘mi piace’ dal mondo esterno, con cui si tiene in contatto un po’ per fare pubblicità alla band, e un po’ per salvarsi dalla totale follia. Frank è interpretato in maniera magistrale da Michael Fassbender, che dimostra così di non aver bisogno di far leva sul proprio aspetto fisico e sulla propria mimica facciale per plasmare un personaggio misterioso ma dotato di grande sensibilità. Di solito, prima di guardare un film, si attribuisce alla sua durata una trama più o meno complessa, o comunque un impegno emotivo direttamente proporzionale ai minuti della visione. Nel caso di Frank, che dura un’ora e mezzo circa, la proporzione è invertita: gli intrecci sono resi in una costellazione di piccoli momenti chiave diluiti nell’alternanza tra il mondo reale e quello surreale della band. I mi piace su youtube dati da un pubblico ignaro delle turbe psichiche dei musicisti; la vicenda personale del tastierista, da uomo comune a testimone della catarsi creativa della band, accanto a quella di Frank, uomo non comune che mai lo sarà e che si è arreso (apparentemente) alla sua diversità, facendone una bandiera che cela il disperato bisogno di essere compreso: il tutto si trasforma , per lo spettatore che abbia una qualsiasi ambizione artistica, in una profonda parabola la cui conclusione farà commuovere anche i più scettici. E perché fa commuovere? Perché è la parabola di tanti artisti incompresi che per loro natura non riescono ad accettare alcun fattore dello show business, in quanto business e in quanto show: ovvero la commercializzazione di uno spettacolo che però nasce dallo spirito dell’artista, il quale mette la sua carne -e la sua testa- alla mercè di un pubblico spietato, pigro e superficiale. L’epilogo vi farà riflettere su una zona grigia tra il bianco dei riflettori e il buio dell’anima: una zona in cui, nonostante il pubblico e l’artista siano distanti e reciprocamente incomprensibili, rimane intaccata la speranza di un contatto in un ‘I love you all’.
Annachiara Innocenzio
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